Empatia Digitale: Capitolo 1

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Di empatia digitale si parla molto e spesso associandola all’intelligenza artificiale e alla necessità di rivedere il nostro utilizzo della tecnologia. Non parlerò di questo. Vorrei che insieme facessimo un passo indietro andando a ricercare, in primis, il significato di empatia.
Esistono definizioni più o meno accademiche, a me piace quella che ci ha offerto l’autrice e ricercatrice Brené Brown:

L’empatia è sperimentare i sentimenti di qualcuno.

Etimologicamente la parola deriva dal tedesco Einfühlung che significa, letteralmente, sentire dentro. Essere empatici, quindi, richiede una componente emozionale di reale immedesimazione in ciò che prova l’altra persona. Questo la rende differente dalla simpatia che, come afferma Brown, significa comprendere le sofferenze altrui con lucidità.

Se la simpatia è un processo razionale, l’empatia consente di entrare emotivamente nella vita delle altre persone.

Ed è questo il punto su cui vorrei porre l’attenzione: l’empatia è la nostra capacità di connessione con gli altri esseri umani. Vediamola come una vera e propria opportunità per costruire, ascoltare, apprendere, scoprire e crescere.

Le neuroscienze hanno evidenziato che le nostre risposte empatiche si rivelano nelle relazioni consolidate da tempo ma anche in quelle nuove.

Gli anni che stiamo vivendo, con un uso ormai quotidiano del digitale, ci ripropongono diversi filoni comunicativi.
Alcuni orientati alla costruzione e altri che parlano solo di rabbia, odio e violenza. Le parole corrono veloci sulla tastiera, hanno un effetto domino devastante sui social network, entrano prepotentemente nella nostra vita ogni volta che accediamo agli strumenti digitali. In questo flusso ognuno di noi assume un ruolo che parte da una serie di scelte.

Cosa vogliamo farne di questi strumenti? Come vogliamo contribuire alla comunicazione digitale? In quale modo vogliamo partecipare al dibattito pubblico? Non sono domande semplici a cui pensare.
Richiedono tempo, consapevolezza e tanti respiri profondi. Ma è sempre con la chiarezza delle proprie intenzioni che si riesce a costruire un percorso più autentico e al tempo stesso utile agli altri. Dove per autenticità intendo anche la capacità di raccontarci in modo onesto pur rispettando le opinioni altrui. Allo stesso tempo, possiamo offrire il nostro messaggio senza dimenticare che ognuno ha la sua storia.

Anche chi intercetta il nostro contenuto. L’empatia digitale allena la nostra curiosità e ci spinge ad abbattere le barriere di diffidenza per avvicinare l’altro. Credo sia questo il suo pregio più grande: promuovere l’uguaglianza di opportunità.

Ho fatto mia l’idea che la disumanizzazione è figlia della non conoscenza: odiamo, rifiutiamo e temiamo ciò che non conosciamo. Apriamoci al sapere, allora, facciamolo con l’utilizzo delle parole.

Di chi sono le parole?

Le parole sono il nostro strumento di comunicazione più potente. Arrivano dritto al cuore delle persone, sono capaci di costruire e distruggere, riescono a risvegliare o assopire l’immaginazione, stimolano o bloccano, attivano l’emulazione positiva o negativa. Ogni parola che pronunciamo o scriviamo arriva con in dono un pacco di emozioni, suggestioni e significati.

Gli studi condotti in questi ultimi anni dai neuroscienziati, evidenziano che cambiando le parole che diciamo possiamo cambiare anche il nostro pensiero. E lo stesso vale se ci rivolgiamo agli altri: come parliamo consente di modificare il dibattito sociale e di offrire nuovi punti di vista.

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Qualche tempo fa mi sono persa in una mia riflessione partita da una domanda: di chi sono le parole? La risposta che mi sono data è che le parole, di fatto, appartengono a tutti noi. Ci vengono dati in dotazione quando veniamo al mondo. Anche i primi versetti che fa un neonato sono un modo di comunicare: esprimono un pensiero. Le parole vibrano intorno a noi, le usiamo tutti i giorni. Talvolta scegliamo di dare loro un significato profondo. Altre volte non ci badiamo. Quasi non meritassero la nostra attenzione.

Proviamo allora a immaginare le parole come una sorta di merce di scambio tra le persone. Possiamo decidere se utilizzarle con superficialità o con la consapevolezza del loro significato e del loro valore. In questo ultimo caso ci rendiamo presto conto del fatto che le parole sono uno strumento potente che ci consente di costruire un contenuto ogni volta che le utilizziamo. Quando, come piace dire a me, le mettiamo una in fila all’altra.

Perché esistono le parole? Ho provato a pensare a due possibili risposte a questa domanda:

  • Le parole servono per comunicare i nostri bisogni e i nostri pensieri. Un po’ come accade al neonato di cui abbiamo parlato prima: i suoi versetti sono l’espressione di un’esigenza personale. Quindi, su questa base, utilizziamo le parole che ci vengono date in dono per mettere in luce una necessità o per condividere una nostra opinione.
  • Le parole, però, sono anche utili per esprimere noi stessi, la nostra essenza e la nostra personalità. Sono lo strumento che utilizziamo per raccontare la nostra storia e per condividere esperienze. E le storie a noi piacciono tanto, per questo i social network ne sono pieni.

Provando a unire queste due risposte alla mia domanda si potrebbe arrivare a un obiettivo edificante e profondo: la collaborazione tra la necessità di esprimere un bisogno e l’opportunità di raccontare la propria essenza. Eccola qui: la comunicazione empatica digitale.

Empatia digitale sui social

Sono una grande sostenitrice della relazione tra empatia e social media. Sono convinta che questi siano uno strumento utile ad abbattere i confini tra le persone. Dei veri e propri facilitatori delle relazioni e delle condivisioni di informazioni e conoscenza.
Loro sono il mezzo, come li utilizziamo dipende solo e unicamente da noi. Sebbene resti valido il concetto che l’autenticità e la
coerenza si misurino soprattutto offline, resta il fatto che attraverso le condivisioni e le scelte che operiamo sui social media mostriamo comunque la nostra essenza.

La dottoressa Tracy Alloway della University of North Florida ha condotto uno studio interessante su ciò che accade su Facebook. Ha coinvolto 400 persone tra i 18 e i 50 anni a cui ha chiesto di compilare un questionario sul loro utilizzo del social network. Dai risultati dell’indagine sono emerse due riflessioni che vi ripropongo qui:

  • Egoismo e narcisismo si manifestano principalmente nella pubblicazione delle foto mentre l’atteggiamento empatico si manifesta maggiormente nella chat di Messenger. In pratica quando si attiva una conversazione più simile a quella che avremmo seduti a un tavolino di un bar.
  • Mentre nelle relazioni offline tendiamo ad avere un rapporto empatico con le persone che ci sono più familiari, online ci apriamo anche a quelle meno note. Il digitale, quindi, riesce ad abbattere i confini.

Queste due riflessioni sono delicate e profonde al tempo stesso. Ci permettono, infatti, di comprendere perché sui social network siamo più propensi a parlare di noi e di quello che ci rende unici e speciali in modo egoico. Ma ancor di più confermano quello che molti di noi hanno testato nella quotidianità: una persona che esprime un commento rabbioso sotto un nostro post pubblico, cambia totalmente tono se portata a una conversazione privata in Messenger. Una dinamica che vi invito a testare se non vi è mai successo di farlo.

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Ho scritto anche Dire Fare Ringraziare perché
Sembrerà incredibile ma, da quando ho capito come comunicare online con autenticità lavorando sulla gratitudine, le opportunità sono cresciute e gli incontri con le altre persone sono stati più emozionati

La suggestione da cogliere, in questo caso, è che siamo più empatici, rispettosi, accoglienti quando ci rendiamo conto di avere davanti a noi una persona. Potrebbe bastare questa consapevolezza a stimolare empatia digitale? Sicuramente è un buon inizio a cui far seguire una serie di altre azioni e scelte utili a migliorare la nostra comunicazione digitale.

E poco importa se siamo comunicatori di professione, qui non è una questione di etichette professionali. Non è più una scusa valida: la nostra quotidianità è impregnata di comunicazione. E noi, tutti, siamo chiamati a essere più responsabili e meno superficiali.

Stefano Pigolotti, contributor di Empatia Digitale

Imprenditore e autore del libro “Il tuo destino è sbocciare“, Stefano Pigolotti è stato per me un incontro illuminante e chiarificatore. Grazie a lui ho saputo comprendere appieno il valore dell’empatia e ho esplorato il tema dell’autenticità. Stefano, nel mio libro Empatia Digitale, ha affermato che<

Non c’è un metodo specifico per poter dire qualcosa di bello o di brutto, ci deve essere solo la volontà di donarsi.

Questa sua frase apre la porta a una serie di riflessioni importanti sulla comunicazione e sulla necessità di essere generosi e collaborativi con gli altri. In particolare, la visione di Stefano rispetto alla comunicazione digitale si basa su tre principi fondamentali:

  1. Rispettiamo la nostra vulnerabilità per occupare con dignità il nostro posto nel mondo. L’empatia è una leva che Stefano definisce “imprescindibile” nella comunicazione e si lega al concetto di ascolto. Se davvero vogliamo trasmettere al mondo ciò che realmente siamo non possiamo prescindere dal coraggio di manifestare amore. E questo si traduce nell’empatia, nell’ascolto e nella condivisione. Nel mondo del digitale, l’ascolto è una vera e propria opportunità ed è allenabile partendo proprio dai contenuti che rintracciamo.
  2. Attraverso l’empatia sveliamo la nostra essenza. Pensate a una pozione magica che si compone di tutto ciò che siamo e di tutto ciò che gli altri ci donano. Un’alchimia sviluppabile solo attraverso una totale apertura all’Universo e alla nostra disponibilità a metterci in gioco. È uno scambio e come tutti gli scambi può generare una crescita. Se pensiamo alle relazioni come alla struttura di un ponte e i contenuti come al cemento che lo completa allora ci torna chiara la forza della connessione tra tutti noi.
  3. Per quanto riguarda lo stretto legame tra empatia e comunicazione, Stefano Pigolotti ci propone un invito: smettiamo di cercare affannosamente il modo migliore o peggiore di dire qualcosa. Nel momento in cui decidiamo di donare abbiamo già fatto una scelta, se poi questa arriva dalla chiarezza delle nostre intenzioni comunicative il gioco empatico è avviato. Quello che diciamo o scriviamo è strettamente correlato ai valori in cui crediamo. Da qui la necessità di fare prima un viaggio dentro noi stessi.

Durante un’intervista, qualche tempo fa, mi hanno chiesto: l’empatia digitale è allenabile? La mia risposta è stata un sonoro sì. Lo è dal momento in cui prendiamo consapevolezza di chi siamo, dove vogliamo andare, quale messaggio vogliamo offrire al mondo e come vogliamo far sentire le persone che incontriamo sulla nostra strada.